giovedì, Aprile 25, 2024

Matteo Nunziati interior designer: dalle Trump Towers e oltre

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Matteo Nunziati, tra i maggiori designer mondiali e attivo nell’architettura di interni, ha accettato di fare quattro chiacchiere con Requadro per fare il punto sul settore e sull’importanza, al di là dell’immaginario comune dei cervelli italiani in fuga, del Made in Italy nel design a livello mondiale, in particolare per quanto riguarda il settore dell’hospitality.

Domanda: Sei un architetto italiano attivo soprattutto all’estero, collabori con alcune tra le più importanti realtà del mondo hospitality: qual è il valore aggiunto dell’avere un background Made in Italy?
Risposta: Il Made in Italy è una filosofia di qualità totale della vita. Il saper mangiare bene, apprezzare le bellezze naturali ed architettoniche, il sapersi vestire e naturalmente saper scegliere oggetti di design caratterizzati da questa eleganza e raffinatezza. Anche nel settore ricettivo un designer italiano ha qualcosa in più perché porta con sé un patrimonio di bellezza e saper vivere bene che è insito nel nostro dna.

D: Progettare per il settore contract: cosa vuole dire oggi e quali sono le sfide principali che un progettista deve affrontare, soprattutto nel panorama internazionale?
R: Credo che in un mondo sempre più spinto alla ricerca ossessiva del guadagno, progettare significa cercare di mantenere una certa moralità. Nel senso che pur essendo concreti e commerciali bisogna riuscire a ricercare sempre una poesia ed un modo di lavorare legato ai valori della vera bellezza. È un equilibrio talvolta molto difficile, ma creare un albergo di successo che comunque contenga degli importanti concetti estetici e culturali è la sfida più interessante.

D: Settore hospitality in Italia e all’estero: come progettista quali sono le differenze?
R: Le differenze principali sono legate al luogo dove si progetta. Nei Paesi emergenti, Medio Oriente, India, Cina, c’è tutto da creare, normalmente le dimensioni dei progetti sono importanti e le possibilità infinite. In Europa e in Italia le possibilità di progettare alberghi in grattacieli da oltre 50 piani sono infinitamente inferiori, ma questo non vuol dire che anche in hotel di piccole dimensioni si possa studiare qualcosa di davvero straordinario. Per cui ogni luogo ha le sue caratteristiche interessanti e stimolanti.

D: Rispondere alle esigenze della committenza è diverso da anticipare bisogni ancora inespressi: come si impara a farlo e cosa aiuta a sviluppare questa sensibilità progettuale?
R: La strada giusta è proprio quella di comprendere i bisogni e le esigenze di chi utilizzerà un albergo o un residence, cercare di entrare nei loro pensieri nei loro desideri, nel loro modo di vivere. In questo modo si riesce a rispondere davvero ad esigenze reali, che non sono solamente funzionali, ma anche al bisogno di bellezza e benessere che a mio parere sono altrettanto fondamentali.

D: Disegni molto a mano libera, ogni tuo progetto inizia da un tratto su un foglio? Per un progetto complesso, come può essere stato quello delle Trump Towers di Pune o del Fraser Suites a Doha, qual è il primo ambiente a cui pensi: gli spazi privati, quelli comuni?
R: Di solito comincio disegnando gli spazi comuni perché normalmente caratterizzano maggiormente la filosofia progettuale. Per il Fraser ad esempio ho cominciato studiando le decorazioni islamiche in particolare la mashrabiya, un pannello in legno traforato con motivi geometrici. Questo segno ha generato una serie di ispirazioni che a partire dalla lobby al piano terra ha caratterizzato tutto il progetto. Il disegno a mano libera è comunque un mezzo fondamentale per trasferire con precisione le prime idee sulla carta e permette di realizzare dei progetti sempre diversi ed in qualche modo interessanti.

D: Ispirazioni e suggestioni provengono spesso da diversi ambiti, ma quali sono i tuoi progetti architettonici e di interior di riferimento? Quelli per cui pensi: “Non poteva essere fatto meglio”?
R: Amo molto l’architettura tra le due guerre italiana ed internazionale, Giovanni Muzio, Giuseppe Terragni, Gio Ponti. Un progetto come la Triennale di Milano di Muzio non poteva essere fatto meglio. Mi piace l’idea di un classico contemporaneo dove per classico non intendo la fotocopia di stilemi antichi, colonne o decorazioni a stucco, ma piuttosto l’evocazione di una simmetria e di un equilibrio che rimanda a qualcosa di classico ma è in realtà fortemente contemporanea. Questo equilibrio mi affascina molto.

di Danilo PremoliOffice Observer

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